Le NON-Fotografie: i cellulari e la stampa

Jeff Koons, Balloon Monkey (Blue 2006-2013). Lunga sei metri e con un peso di 5 tonnellate quest’opera è esposta in questi giorni nel cortile di Palazzo Strozzi a Firenze. L’opera rende monumentale un animale fatto di palloncini che di solito si trova alle feste di compleanno dei bambini.

Il noto artista americano Jeff Koons, conosciuto al grande pubblico italiano grazie anche al suo matrimonio con Ilona Staller alias Cicciolina icona del porno anni Ottanta, in occasione di una sua visita al Polimoda di Firenze, ha ‘messo in riga’ gli studenti per l’uso incondizionato del cellulare. Li ha accusati di vedere la realtà attraverso il filtro dello smartphone, perdendo così il brivido della vita, quando invece dovrebbero essere solo gli occhi a godere del piacere di ciò che hanno davanti. Beh forse detto da lui è alquanto discutibile visto che la Pop Art, di cui è esponente, ruota proprio intorno alle riproduzioni esasperate, critiche e deformate di tutti quei cliché, mode e abitudini dei giorni nostri, però è certamente qualcosa su cui riflettere. I cellulari sono diventati la retina dei nativi digitali e hanno ormai perso o quantomeno delegato ai margini, il loro uso primordiale ossia quello di telefonare. Anche le pubblicità sottolineano ed esaltano le capacità fotografiche dell’apparecchio più che la sua funzione primaria. Con le istantanee dei telefonini crediamo illusoriamente di trattenere quel momento decisivo e fuggente tanto caro a Bresson, quando in realtà raccogliamo solo delle immagini effimere, destinate a scomparire pochi attimi dopo lo scatto. Sotto questo aspetto Koons ha certamente ragione. Io sono convinto che i cellulari di quegli studenti siano pieni di immagini che non rivedono da tempo e che probabilmente non rivedranno mai più. Una produzione compulsiva di fotografie che magari al momento dello scatto volevano fissare un ricordo, un incontro, una storia, ma che l’accumolo continuo di altre immagini le hanno sommerse e relegate sulla ‘nuvola’ dalla quale probabilmente non torneranno mai più giù.

La qualità dei moderni cellulari è addirittura paragonabile, talvolta anche superiore, a tante macchine fotografiche. Grazie agli smartphone si scattano più foto ogni giorno di quante ne siano state prodotte nei primi 100 anni dalla nascita della fotografia, ma non si stampano più. E’ un problema questo? Certo ma non tanto per la crisi che ha colpito da tempo tanti piccoli stampatori – cosa comunque da non sottovalutare, ma, ahimé, conseguenza inevitabile del ‘progresso’ alla stregua della scomparsa dei maniscalchi dopo la diffusione popolare delle automobili – quanto nel modo di vivere le emozioni, le sensazioni, le angoscie, le gioie e il rapporto con la realtà. Mi ricordo quando mi trovai, anni fa, davanti alla ‘Notte stellata’ di Van Gogh esposta al MoMa di New York. Rimasi attonito nel guardare quel dipinto. Mi misi seduto nella panchina disposta davanti al quadro e stetti a fissarlo immobile, in una sorta di trance ipnotica, per oltre 10 minuti. Poi iniziai a piangere sopraffatto dall’emozione che la visione del dipinto mi aveva provocato.

Villa Il Garofalo – Firenze. Spesso nei matrimoni non si riesce a godere l’emozione degli amici che convolano a nozze perché troppo impegnati a fotografare con il proprio smartphone.

Per lavoro mi sono recentemente ritrovato a visitare altri musei o luoghi dove c’erano delle opere d’arte esposte e, memore della mia esperienza passata, mi sono fermato ad osservare se il comportamento di molti dei visitatori fosse in qualche modo simile al mio. Beh mi sono reso conto che le opere non si osservano più, ma si fotografano e poi si passa oltre. In particolare mi ha colpito l’atteggiamento di una comitiva di studenti, probabilmente liceali di un istituto d’arte, i quali dedicavano il tempo di uno scatto (obbligatoriamente in verticale, sintomo e simbolo della cultura visuale dei nostri tempi condizionata dalle esigenze di condivisione sulle stories dei social) senza rendersi neppure conto di ciò che avevano davanti. Cliccare all’impazzata davanti al Mosè di Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli a Roma non è un modo di portarsi a casa una copia della scultura, ma solo il vano e vacuo tentativo di fermare l’emozione che, opera e contesto, suscitano nell’illusoria speranza che quello scatto la possa far riemergere nel comodo salotto di casa. Purtroppo non avendola vissuta sul momento, l’effetto di quella fotografia sarà lo stesso di una medesima immagine vista sul libro di un freddo testo scolastico.

Diane Arbus diceva che molte cose non ‘esisterebbero’ se non fossero state fotografate e aveva ragione, il fotografo vede ciò che è davanti agli occhi di tutti ma che non tutti vedono, parafrasando una riflessione, che adoro, del filosofo tedesco Wittgenstien. La macchina fotografica può rivelare segreti preclusi ad uno sguardo di massa, ma l’atto dello scattare dovrebbe presupporre una coscienza e una volontà che vada oltre una compulsività annoiata e superficiale. Un fotografia, aldilà del mezzo con cui viene presa, dovrebbe essere qualcosa di pensato, di sensato, di motivato. Si dovrebbe chiedersi il perché di uno scatto e la sua utilità e collocazione.

Prima dell’avvento del digitale una fotografia per diventare tale doveva essere selezionata con cura tra le decine (e non le migliaia) fatte, si prestava poi attenzione a quale poteva essere la migliore e successivamente si stampava decidendo il formato e pensando a dove e come disporla. Scianna ci ricorda di come il massimo valore di un’immagine stia proprio nell’entrare a far parte dell’album di famiglia, di quell’oggetto sacro presente in ogni casa che puntualmente veniva sfogliato riportando alla mente quelle sensazioni ed emozioni che altrimenti sarebbero evaporate e perdute per sempre. Le fotografie avevano e hanno, oggi a maggior ragione, bisogno di essere stampate altrimenti restano qualcosa di fluido e latente privato della ragione stessa per cui si è deciso di scattare. Ma, ritorno sui miei dubbi, molto di questo scattare continuo e assilante ha un perché?

Una vecchia foto di famiglia della Regina Vittoria, quando era la stampa a fare una fotografia

Questa mia riflessione non vuol essere un attacco ai cellulari, anzi. Il loro avvento ha incrementato in modo esponenziale la possibilità di fotografare e di fissare nel tempo degli strappi di realtà che probabilmente avremmo perso. Però ho paura che questa facilità allo scatto abbia condizionato il modo di relazionarsi con il mondo e ci abbia allontanato da una delle poche cose che non si possono comprare: le emozioni. Davanti a un rosso tramonto autunnale dove la luce calda della sera accentua i colori ambrati delle foglie, guardando la montagna di Saint Victoire dipinta da Cezanne in uno dei suoi celebri quadri, camminando tra i ‘presepi’ di San Gregorio Armeno a Napoli o degustando un semplice piatto di cacio e pepe alla romana mettiamo da parte il nostro telefono e torniamo a godere dei sapori, degli odori, delle sfumature della natura, del bello della vita in quanto emozione. Torniamo a camminare a ‘piedi nudi sull’erba’ anche il nostro spirito ci ringrazierà.

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