Quando il dolore si fa estetica: la retorica visiva nei premi fotografici
Quando il dolore diventa estetica: una riflessione sull’immagine vincitrice del World Press Photo 2025
Nel mondo del fotogiornalismo, l’immagine ha un potere immenso: documenta, denuncia, commuove. Ma cosa succede quando il dolore umano viene tradotto in una forma così “bella” da diventare quasi una formula? È una domanda che torna prepotente guardando la fotografia di Samar Abu Elouf, vincitrice del World Press Photo 2025.
Lo scatto ritrae Mahmoud Ajjour, un bambino palestinese di nove anni che ha perso entrambe le braccia in un attacco israeliano a Gaza nel marzo 2024. Attualmente si trova a Doha, in Qatar, dove impara a vivere usando i piedi e sogna un giorno di ricevere protesi. La fotografa lo ritrae seduto contro una parete, attraversato da una luce intensa, ma morbida che scolpisce il suo volto e il suo corpo con una compostezza quasi pittorica. Il minimalismo della scena — fondo neutro, vestiti semplici, posa centrale — accentua l’umanità del soggetto. È un’immagine potente, sì, ma anche estremamente “costruita”.
E proprio qui nasce la riflessione.
Negli ultimi anni, si è affermato uno stile visivo ricorrente nel fotogiornalismo premiato: composizioni drammatiche, luci radenti, soggetti vulnerabili (spesso bambini) in pose quasi sacrali. È come se la tragedia dovesse rispondere a determinati canoni estetici per “funzionare”. Non è un caso isolato. Basti guardare alla fotografia vincitrice del World Press Photo Story of the Year 2023, realizzata da Mads Nissen per il reportage The Price of Peace in Afghanistan. In una delle immagini più forti della serie, un bambino afghano mostra la cicatrice che segna il suo addome. Lo fa frontalmente, guardando l’obiettivo, in una posa che sembra quasi una dichiarazione silenziosa. Ancora una volta, il soggetto è al centro, la luce è morbida ma drammatica, il contesto è ridotto all’essenziale. Il messaggio arriva forte — ma anche attraverso una costruzione visiva molto precisa. Questo tipo di rappresentazione, che si potrebbe definire “bellezza tragica codificata”, si ripete anche nella fotografia vincitrice del World Press Photo 2024 di Mohammed Salem, in cui una donna palestinese stringe il corpo senza vita della nipotina. Un’immagine intima, centrale, perfettamente leggibile emotivamente. Una nuova “Pietà” contemporanea.
Tre immagini, tre storie vere, drammatiche, necessarie. Ma che sembrano parlare la stessa lingua visiva, fatta di silenzio, luce e centralità. Una lingua che colpisce il cuore, ma rischia di non lasciare spazio alla complessità, al rumore, all’ambiguità. La potenza espressiva rischia di diventare manierismo visivo, e il messaggio — per quanto urgente — si trasforma in una “immagine-tipo”, in una retorica già vista.
Non voglio negare il valore di queste fotografie. Samar Abu Elouf ha certamente dato voce a una realtà altrimenti invisibile, ma forse è tempo di chiederci se la fotografia di guerra, di dolore, di emergenza, non debba cercare nuove strade narrative. Meno estetizzanti, più ambigue. Meno iconiche, più scomode. Perché il rischio, quando il dolore diventa estetica, è che finisca per anestetizzare proprio ciò che dovrebbe risvegliare. Probabilmente è il sistema dei premi, e il pubblico stesso, a chiedere inconsciamente immagini che si somiglino, che rassomiglino alla “grande foto vincente” però credo sia arrivato il tempo di aprirsi a visioni più spiazzanti, meno armoniche, che non cercano l’icona ma la frattura. Immagini che non puntano solo all’empatia immediata, ma che disturbano, mettono in crisi, rompono l’inquadratura.
In un’epoca in cui la fotografia lotta contro la saturazione visiva, non basta più toccare il cuore. Bisogna anche sfidare lo sguardo.