Il capitolo primo del mio essere fotografo

Avevo appena compiuto 12 anni ed ero in uno dei tanti viaggi africani con i miei genitori. Solitamente ci si muoveva in un camper che mio padre aveva attrezzato per muoversi tra le sabbie del deserto. Mi ricordo che eravamo partiti con altri amici che condividevano la stessa passione: Africa e Caravan. A me piaceva l’idea di stare con i Miei in un ambiente così stretto ma familiare. In genere, in questi viaggi, non c’erano altri bambini, ancora il Continente Nero incuteva un certo timore culturale legato a possibili ‘strane’ malattie. Questa volta invece, un’altra coppia aveva portato con se la figlia; era una mia coetanea. Si sa le femmine sono sempre piuttosto avanti rispetto a noi maschietti e fin da subito cercò di fare amicizia con me. Io, che fino a quel momento avevo giocato a fare Tex Willer nei boschi dietro casa dove abitavo, non sapevo come relazionarmi.

Mio padre aveva fatto l’onore di prestarmi – è sempre stato molto geloso delle cose che gli appartenevano – una della sue macchine fotografiche. Era una Nikon F con il classico Photomic che la rendeva unica ma anche piuttosto pesante. Mio padre ha sempre fatto fotografia per passione, non è mai stato un professionista anche se, almeno agli occhi di un bambino, sembrava che fosse il suo lavoro. Sempre in giro a scattare, riviste di fotografia in ogni dove, diapositive, negativi appesi ad asciugare, camera oscura e ingrandimenti incorniciati ovunque. Ogni occasione era buona per impugnare la camera e scattare. Se avesse vissuto nell’epoca degli smartphone sono convinto che sarebbe stato uno di quei ragazzi dallo scatto compulsivo, ma mai casuale, sempre ragionato perché mio padre non ha mai fatto uno scatto senza un pensiero dietro.

Un giorno, dopo pranzo, quando i rispettivi genitori si stavano riposando onde evitare di muoversi nel torrido caldo africano, mi ritrovai solo con questa bambina. Non ricordo il suo nome, ma aveva i capelli lisci, pasciutella e con un brutto apparecchio di metallo sui denti. Lei tranquilla come sempre, io imbarazzato, timoroso e incapace di dire qualsiasi cosa. Una parte di me avrebbe voluto essere a casa, tra vecchi amici a costruire fortini sugli alberi per difendersi dagli indiani. Sentivo però una certa attrazione verso quella fanciulla, non capivo ancora cosa fosse, ma era comunque una sensazione nuova a cui non sapevo dare una spiegazione. Avevo in mano la mia Nikon, non me ne separavo mai, mi rendevo conto che mio padre mi aveva dato qualcosa di suo, di prezioso e io lo custodivo con estrema attenzione. Non so dire le ragioni di fondo forse fu’ l’istinto che mi spinse a chiederle: ‘posso farti una foto?’. Mi rendo conto che oggi sarebbe stato tutto più banale, più immediato, più scontato con un cellulare in mano, ma allora fu tutto diverso. Un bambino con una reflex che doveva mettere a fuoco manualmente e che doveva valutare il tempo e il diaframma di scatto corretti – ‘l’ago interno al mirino deve essere al centro per fare una fotografia corretta’, mi diceva sempre mio padre – doveva apparire come una sorta di mago agli occhi di una bambina che forse non l’aveva mai neppure toccata una macchina fotografica professionale.

Lei mi rispose: ‘si, certo che puoi’. Mi sorrise – chissà perché si sorride quando qualcuno ti fa una foto – incurante dell’antiestetico metallo che aveva intorno ai denti. Io continuai a scattare sperando che il rullino che avevo montato fosse infinito. Sapevo che una volta terminato sarei piombato nuovamente in quell’imbarazzo che mi fa chiudere in me stesso ancora oggi. Feci poco meno di 30 foto praticamente tutte uguali… non so che fine abbiano fatto. Quando la levetta di ricarica si fermò definitivamente, allontanai l’occhio dal mirino e abbassai la testa. Guardando attraverso la camera riuscivo ad incrociare il suo sguardo, ma senza il filtro della lente avevo quasi paura di osservarla. Non sapevo cosa dire, cosa fare, come muovermi.

La bambina si avvicinò e sfiorò le sue labbra con le mie. Fu il mio primo bacio seppur pudico e innocente. Fu la prima volta che sentii qualcosa di nuovo nascere dentro di me: l’amore verso le donne – che mi avrebbe fatto vivere gioie e dolori – , ma soprattutto ebbi la percezione, seppur filtrata dalla mente di un bambino, di quanto la fotografia sarebbe potuta diventare per me qualcosa di potente e importante. Avevo scoperto che tramite quel mezzo potevo comunicare con gli altri, quell’oggetto mi permetteva di parlare al mondo senza paura. Mi rendevo conto che, dietro alla macchina fotografica, non ero più quel bambino timido e timoroso di sbagliare; non sentivo più quell’imbarazzo che talvolta mi faceva balbettare; non avevo l’angoscia di essere sempre fuori luogo e inadatto alla circostanza. Da quel giorno la fotografia diventò la mia compagna di vita, non mi ha mai abbandonato, non mi ha mai tradito – non posso dire la stessa cosa di donne e amici – e tutte le volte che ne ho avuto bisogno, lei è stata sempre lì ad attendermi, complice delle mie storie più intime.

Così come non puoi scegliere chi amare anche con la Fotografia è successo lo stesso: ci siamo trovati e ci siamo riconosciuti. Forse ero un predestinato, non so.

Quell’innocente sfiorarsi di labbra – c’è voluto qualche anno ancora perché capissi cosa fosse un bacio vero – è stato uno di quei momenti che mi hanno cambiato per sempre; è stato l’inizio della mia storia, della mia vita, dell’essere la persona che sono oggi. Quel giorno è nato un Fotografo qualsiasi idea abbiate di me o della Fotografia.

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