Nella fotografia di matrimonio si può fare del vero reportage?

Una risata allenta la tensione durante la preparazione della sposa

Forzatamente relegato in casa, frutto dell’espropriazione temporanea del mio accesso allo studio per i mondiali di ciclismo, forse trovo un pochino di tempo per mettere su ‘carta’ alcune riflessioni su un tema che mi è particolarmente caro: il reportage nella fotografia di matrimonio. Chi mi conosce sa che nel corso degli ultimi 15 anni ne ho fatto quasi una guerra di religione cercando di far capire – credo anche grazie alle mie immagini – che era ed è possibile fare del vero reportage in un settore in cui lo stereotipo dello scatto era (e per alcuni lo è tutt’oggi) la sposa seduta sull’erba che guarda lo sposo, con la giacca sulle spalle, in piedi davanti a lei. L’ho sempre sostenuto e continuerò a farlo. Se consideriamo il matrimonio come un evento allora è lecito parlare di reportage dell’evento, ossia del racconto di quello che accade nell’arco dello svolgimento dello stesso. Ovviamente questa narrazione ha delle limitazioni e/o delle profonde differenze, spesso anche stilistiche, rispetto ad altri generi di reportage. L’evento matrimonio si svolge nell’arco di una giornata, raramente in tempi più lunghi; alla fine, anche se vieni scelto per la tua fotografia, c’è sempre una sorta di committente, lo possiamo quasi considerare un assigment e quindi soggetto a dei limiti; a meno che non tu stia fotografando una coppia di cari amici, è difficile – non dico impossibile – riuscire a stabilire un legame intimo con gli sposi; c’è sicuramente un progetto da seguire, purtroppo, però, già scritto e – salvo rari casi – manca una ‘notizia’ che possa essere di interesse collettivo. Tutte considerazioni legittime.

Ho affrontato questo argomento con una persona che vive la fotografia in modo molto intimo e soggettivo, quasi un’esigenza vitale di raccontare storie prima a se stessa per poi condividerle con il mondo. Ne è nata una discussione animata che ci ha portato a riflettere sul concetto stesso di fare reportage.

Ritengo che definirsi fotografo reportagista e in particolare fare del reportage nel matrimonio NON voglia dire semplicemente non mettere più o meno in posa gli sposi come spesso purtroppo sento dire anche da colleghi. Eugene Smith ‘costruiva’ i suoi reportage e, per parlare di una fotografa attuale, il progetto Afronauts di Cristina De Middel sul folle programma aerospaziale dello Zambia è delizioso e totalmente ricostruito. Eppure entrambi, a loro modo, raccontano delle storie.

Cristina de Middel dal progetto Afronauts

Premesso questo, cosa è reportage? La parola francese significa ‘riportare’ nel senso di ‘raccontare’, quindi, letteralmente, qualsiasi progetto fotografico che abbia qualcosa da narrare, che illustri in immagini una storia, indipendentemente dall’argomento della narrazione e dalla sua forma stilistica è reportage. Questa visione vale a prescindere dalla qualità fotografica finale. Ovviamente ci sono delle storie che hanno degli spessori diversi, più o meno importanti. Ci sono delle forme espressive, degli stili comunicativi – ma anche la ricerca e lo studio del progetto –  che ovviamente fanno la differenza ed evidenziano l’importanza e la bravura del fotografo. Proprio all’inizio del capitolo del libro Forme ed espressioni del reportage, Alfredo De Paz scrive: “Se ogni fotografia in generale – in quanto riporta immagini del (dal) mondo – può essere detta reportage, il reportage vero e proprio si riferisce a quelle immagini riprese da un fotografo in tempo reale sul luogo stesso di un determinato evento; in questo senso, la fotografia di reportage, in quanto registrazione meccanica del mondo, si distingue dalla “fotografia di atelier” in cui determinate situazioni vengono artificialmente costruite e messe a punto per finalità estetiche”.

Certamente se paragoniamo il racconto di un matrimonio con le storie profonde, spesso tristi e drammatiche, narrate da Darcy Padilla, Paolo Pellegrin, Craig F. Walker, Jerome Sessini, Alec Soth, Sally Mann e ne potrei citare molti altri, emergono delle profonde e ovvie differenze che vanno anche oltre i contenuti. Entrano in gioco aspetti diversi quali un forte coinvolgimento emotivo del fotografo e il desiderio, direi quasi la necessità, di voler raccontare qualcosa, quella cosa, al mondo.

Fotografia di Craig F Walker, vincitore del Pulitzer nel 2012, estratta dal progetto Welcome Home

Certo questo approccio non è così facile trovarlo mentre lavori in un matrimonio, ma non per questo vuol dire necessariamente che non stai facendo del reportage. Nella mia fotografia di cerimonia – ma non solo –  c’è una parte di me, si legge nello scatto il mio stato d’animo, il mio essere più o meno tranquillo, la mia continua ricerca formale, i miei studi, il mio confrontarsi con nuovi autori, nuovi libri, nuove forme d’espressione. I ‘miei’ sposi cercano – o almeno lo spero – i miei scatti perché raccontano la loro storia come vorrebbero fosse raccontata. Capisco che quello che fotografo, nelle peculiarità proprie della coppia, è comunque una storia già scritta; il mio coinvolgimento emotivo – benché cerchi, quando possibile, di parlare e confrontarmi con gli sposi in diversi incontri prima delle nozze – è sempre inevitabilmente parziale. Capisco che manca, nella fotografia di matrimonio, una notizia universale da comunicare al mondo; il matrimonio di due persone comuni interessa agli sposi, ai genitori e a una cerchia più o meno numerosa di amici sinceri. Ma il mio ruolo rimane quello di raccontare, nella forma stilistica che mi appartiene, il loro giorno non solo documentando giornalisticamente l’evento, ma cercando di fermarne le emozioni, le ansie, le paure, le gioie in modo che la coppia nel vedere le foto, possa rivivere quei momenti nel tempo a venire. Un lavoro difficilissimo, unico, con una responsabilità che per gli sposi equivale alla narrazione di un evento universale. Certo non scatti per te stesso o almeno lo puoi fare solo in parte e il tuo coinvolgimento emotivo è limitato, talvolta – ahimé – totalmente assente. Forse questo sì, nel momento in cui facciamo entrare in gioco nella definizione di reportage anche sensazioni, sentimenti personali e il ‘sentire’ la storia allora emergono alcuni limiti nel fare del vero reportage nella fotografia di matrimonio. Solo però in tal senso, altrimenti è possibile raccontare il matrimonio.

Una pausa, un incrocio di sguardi tra due generazioni…

Queste considerazioni, almeno nelle mie intenzioni, vogliono essere uno spunto di confronto e magari l’apertura di un dibattito ben più complesso. Vogliono essere un modo per riflettere e per avere una migliore coscienza del nostro lavoro: fare il fotografo.

Buona luce

[Le fotografie qui presentate, nel rispetto del diritto d’autore, vengono riprodotte per finalità di critica e discussione ai sensi degli artt. 65 comma 2, 70 comma 1 bis e 101 comma 1 Legge 633/1941.]

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