Waiting room

Che per gli ultimi quindici o vent’anni della sua vita un uomo non sia più che uno scarto è una cosa che denuncia il fallimento della nostra civiltà, e questo fatto ci prenderebbe alla gola se considerassimo i vecchi come uomini, con una vita d’uomini dietro di loro, e non come cadaveri ambulanti.

Simone de Beauvoir, La terza età, 1970

Un’ospite della ‘casa di riposo’

Per la società la vecchiaia è un ‘qualcosa’ di vergognoso di cui non parlare. Il mondo vive sull’apparenza, sul sorridere sempre, sul mostrarsi sempre in forma, fit well si direbbe in inglese e quando tutto questo svanisce, quando non sei più giovane e bello, quando non sei più autosufficiente e non basti più a te stesso ecco che vieni isolato, sbattuto alla porta, emarginato. Viene meno il rispetto, la riconoscenza, ci si dovrebbe togliere il cappello e dire grazie a chi ha i capelli bianchi e invece si nasconde e lo si parcheggia.

L’ospizio come anticamera della morte. Un uomo si annulla e inizia a contare alla rovescia. Il vecchio diventa eunuco del tempo. Ci si sente ombre, figure indefinite, i colori sbiadiscono, si fissa il vuoto, si ride solo quando si è annullata la coscienza. Gli occhi si velano di tristezza, si è persa ogni speranza. Le giornate passano lente, i ritmi sono scanditi dalle pause pranzo, le ore si susseguono uguali e non segnano più l’attesa di qualcosa se non della fine. Siamo in una waiting room, dove non c’è nemmeno qualche giornale da leggere.

E le istituzioni come rispondono? Si cerca, come in tutto, di non guardare in faccia la realtà, si cambiano i nomi per salvare le apparenze come se bastasse ciò a dare nuova dignità alla persona, al luogo. Diversamente abili, operatori ecologici, senzatetto, non vedenti, interruzione di gravidanza, male incurabile, case di riposo appunto. Non è così. Il sepolcro lo puoi imbiancare quanto vuoi, ma conterrà sempre un cadavere in putrefazione.

un letto accanto all’altro con tutti i ricordi di una vita

Si passa il giorno a fissare una parete vuota

Si aspetta di morire con i familiari al capezzale

Ho avuto l’occasione di passare alcuni giorni in questo ospizio, in Nepal, costruito a 100 metri dalle rive del fiume sacro Bagmati dove vengono, nella tradizione induista, cremati i morti nel loro passaggio verso una nuova reincarnazione scandita dal samsara, il ciclo delle vite. Per onestà intellettuale si dovrebbe guardare a certi luoghi filtrandoli con la cultura del paese. La morte per la maggior parte degli orientali è vissuta e sentita in modo profondamente diverso dal nostro mondo; non se ne ha paura perché è una transizione necessaria verso una nuova vita terrena. Però, seppur consapevole, non ce l’ho fatta a non farmi coinvolgere, non sono riuscito a rimanere indifferente a ciò che ho visto, a quei volti senza nome, a quegli occhi senza speranza, a quei gesti ripetitivi come una sorta di giocattolo a cui stanno finendo le batterie. Forse le sensazioni che ho provato sono frutto del particolare momento che sto vivendo, forse leggevo nei volti di chi stavo fotografando solo un riflesso di ciò che avevo e ho dentro, non so.

Lascio a ognuno di voi, ma prima di tutto a me stesso, un modo per pensare e per riflettere sulla condizione del ‘vecchio’ dove, come tale, non mi limito ad una semplice considerazione anagrafica ma alla vita di tutti coloro che hanno perso la speranza nel futuro.

Buona luce

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Comments (6)

  1. Domenico" rel="external nofollow">Domenico 25 Marzo 2013 at 22:02

    Ho assistito anch’io tempo fa di ritorno da un trekking al campo base Everest, ad una cremazione sul fiume Bagmati. Un’esperienza unica, difficile da descrivere, profonda e imbarazzante.
    Era difficile essere li a far da spettatore in un momento così delicato per i cari che assistevano il defunto.

  2. Edoardo" rel="external nofollow">Edoardo 25 Marzo 2013 at 22:16

    Domenico credo che certi momenti li dobbiamo filtrare con la mentalità della gente del luogo… Onestamente non mi sono sentito imbarazzato in quella occasione, stavo raccontando uno spaccato di vita locale. Un abbraccio

  3. Annalisa 11 Aprile 2013 at 16:20

    mi sono immersa prima nelle parole che hai scritto poi nelle immagini. Rifletto su quanto dici, su quanto senti. Con le tue parole hai creato la via, con le immagini sei arrivato diritto al cuore e all’anima col dolore, la solitudine, la paura, la totale perdita dell’identità, del senso di se. Fa male e allo stesso tempo la forza delle tue immagini colpisce, fa dire: oggi vado da mia nonna, hai ragione, anche la sua di vita volge al termine, e non avrò altro tempo per lei se non questo, oggi. Grazie

  4. Edoardo" rel="external nofollow">Edoardo 11 Aprile 2013 at 16:58

    Che bello Annalisa leggerti… Grazie a te!!!!

  5. Giuliana 28 Aprile 2013 at 11:34

    “Buona luce” è davvero una bella espressione, un augurio valido ad ogni età e condizione di vita. Condivido ogni cosa che scrivi, non te ne spiego le ragioni, forse le puoi intuire.
    Cambiare il nome alle cose non ne cambia la sostanza, solo l’amore resta uguale a se stesso, sempre.
    Tuttavia non perdonerò chi ha segregato una persona a me cara in un orrido ospizio (R.S.A.) riducendola come una larva in meno di 4 anni, tra mille giustificazioni fasulle e ipocrite. Perchè morire di ospizio è proprio indegno.

  6. Edoardo" rel="external nofollow">Edoardo 28 Aprile 2013 at 14:50

    ‘Perché morire d’ospizio è proprio indegno’… Condivido con il cuore Giuliana

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